“Il computer non è una macchina intelligente che aiuta le persone stupide,
anzi è una macchina stupida che funziona solo nelle mani delle persone intelligenti.”
Umberto Eco, Come scrivere una tesi di laurea con il personal computer, 1986 (prefazione).
I social network si suddividono tradizionalmente nelle seguenti categorie:
– generalisti: caratterizzati dal non avere un tema specifico o uno scopo preciso che non sia quello di far “socializzare” i propri iscritti (i più popolari sono senza dubbio Facebook e Twitter);
– tematici: destinati a trattare un unico tema (es. Linkedln per tematiche professionali e per il business);
– funzionali: nel cui ambito rientrano i servizi che, pur avendo un’anima generalista nei contenuti, si distinguono perché ruotano attorno ad un tipo specifico di contenuti (es. YouTube per i video, Flickr per le foto, ecc.).
YouTube (http://www.youtube.com/)
Perché sono diffusi e perché vale la pena di occuparsene? L’ errore più grave che si possa compiere, nell’approcciarsi con tono critico al fenomeno dei social network, è quello di considerarli un fenomeno di moda, per lo più adatto ai giovani, ma passeggero come tutte le mode giovanili.
Già Aristotele, nel IV secolo A.C., scriveva che “l’uomo è un animale sociale”, ma i veri teorizzatori dei social network, nel senso più moderno del termine, sono Frigyes Karinthy (poeta ungherese 1887-1938) e Stanley Milgram (psicologo statunitense 1933-1984).
Al primo si deve il merito di aver per primo esposto la c.d. “teoria dei 6 gradi di separazione” o “teoria del piccolo mondo”.
Al secondo, invece, si deve il merito di averne dimostrato (già nel lontano 1967) la fondatezza, grazie ad un esperimento condotto presso l’Università di Harvard.
Scopo dell’esperimento era quello di capire il grado di possibilità che due persone, selezionate a caso, si conoscessero. La tesi da dimostrare era che la popolazione statunitense fosse – appunto – una “rete sociale”.
Milgram individuò casualmente un gruppo di americani del Midwest e chiese loro di recapitare un pacchetto a un estraneo che abitava nel Massachusetts, quindi a diverse migliaia di chilometri di distanza. Ognuno di essi conosceva il nome del destinatario, il suo impiego, e la zona in cui risiedeva, ma non l’indirizzo preciso. Fu quindi chiesto a ciascuno dei partecipanti all’esperimento di mandare il proprio pacchetto direttamente al destinatario (se conosciuto), oppure ad una persona da loro conosciuta, che, a loro giudizio, poteva avere il maggior numero di possibilità di conoscere il destinatario finale. Quella persona avrebbe fatto lo stesso, e così via, fino a che il pacchetto, passando di mano in mano, non fosse stato personalmente consegnato al destinatario finale.
Quando i pacchetti giungevano a destinazione sarebbe stato possibile ricomporre il percorso compiuto da essi e – quindi – conoscere le relazioni tra le persone che li avevano trasportati.
I promotori dello studio si aspettavano che il completamento della catena avrebbe richiesto perlomeno un centinaio di intermediari, mentre invece si rilevò che i pacchetti, per giungere al destinatario, richiesero in media solo tra i cinque e i sette passaggi. Da ciò l’espressione: “sei gradi di separazione”.
Su tali basi si fondano oggi i social network che noi conosciamo, i quali, quindi, non hanno inventato proprio nulla. Hanno solo riprodotto nel mondo “digitale” ciò che da tempo sperimentiamo, pratichiamo ed utilizziamo – quasi senza saperlo – quotidianamente nel mondo “reale”: la nostra rete di conoscenze.
A cosa servono i social network?
Molti pensano che servizi come Facebook o Twitter servano solo per condividere le foto delle vacanze, crearsi una vetrina in rete, scrivere al mondo i propri pensieri oppure soddisfare la propria voglia di protagonismo.
Focalizzarsi sui contenuti e non sullo strumento è sempre riduttivo. Sarebbe come dire che, poiché la maggior parte degli SMS viene usata per scambiarsi gli auguri, allora gli SMS servono solo a quello.
E’ evidente, invece, che i social network sono uno strumento eccezionale per la comunicazione “uno a molti”.
Tutti noi conosciamo bene cosa siano gli SMS, ed anche cosa sia la posta elettronica. Si tratta – in entrambi i casi – di sistemi di comunicazione “uno ad uno” nei quali, cioè, un interlocutore invia una comunicazione ad un solo destinatario.
Il fatto che i nostri telefonini o i software di gestione della posta elettronica si siano evoluti, consentendoci di inviare lo stesso messaggio a più persone, non elimina il fatto che – in concreto – si tratti di tanti singoli messaggi che vanno da un unico mittente ad un unico destinatario.
Servizi come Twitter e Facebook, invece, consentono lo sviluppo di una comunicazione “uno a molti”, tramite la quale un soggetto invia un’unica comunicazione potenzialmente ad un numero più o meno indefinito di soggetti, spesso “imprevedibile” anche per lo stesso mittente.
Una simile forma di comunicazione ha, con tutta evidenza, potenzialità enormi.
Se, infatti, ripensiamo alla teoria dei 6 gradi di separazione, allora è facile comprendere che l’invio di un messaggio ad una propria cerchia di conoscenti, attribuendo ed essi la facoltà di “rilanciarlo, diffonderlo o condividerlo” con altri, consentirà di ottenere in breve tempo una diffusione enorme del messaggio stesso, attraverso il suo passaggio da una cerchia all’altra.
Il giurista al tempo dei social network
Dubitare del fatto che i social network debbano oggi interessare ad un giurista sarebbe come decidere di non prendere in considerazione il computer solo perché la macchina da scrivere funziona ancora bene.
Egli infatti, non dovrebbe esserne attratto solo in quanto potenziale utilizzatore, ma addirittura come studioso.
Del resto, come ci è sempre stato insegnato, il diritto è quell’insieme di principi e regole di comportamento che i membri di una comunità si danno, e sui quali intendono fondare le proprie relazioni sociali.
Se, dunque, non esiste il “diritto” senza un comportamento sociale da regolamentare, è vero anche che qualunque fenomeno sociale
prima o poi presenta anche problematiche giuridiche da dover disciplinare, regolamentare, contrattualizzare. Pensiamo solo a quanto possa rivelarsi delicata la disciplina di questioni quali la privacy, i rapporti internazionali, le problematiche ereditarie, quando queste hanno ad oggetto non la nostra vita “reale”, ma quella “digitale”.
Le potenzialità, quindi, dei social network, per un giurista, sono enormi.
E non solo come strumento, ma anche come fonte del proprio lavoro.